Dall homo sapiens all’homo technologicus

   La maggioranza degli studiosi è concorde nell’individuare nella tecnologia il fattore che ha trasformato l’homo sapiens in homo technologicus. Grazie alla sinergia sviluppatasi grazie alla complessa interconnessione tra evoluzione biologica darwiniana (l’homo sapiens è il prodotto di un lunghissimo processo di mutazione e di selezione naturale) ed evoluzione socio-culturale lamarckiana, rapida e irresistibile, basata sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti con l’esperienza e tramandati per apprendimento e imitazione, il passaggio da homo sapiens a homo technologicus è stato brevissimo.

   Questa accelerazione è stata possibile grazie, appunto, alla tecnologia che, in quanto estensione del corpo e delle capacità fisiche e psichiche dell’uomo, ha creato le condizioni, ideali per uno sviluppo tecnologico che ora rischia di travolgerci. Non riusciamo, infatti, a stare a passo con le realizzazioni tecniche, e neanche a metabolizzare adeguatamente le trasformazioni in atto, talmente è veloce il susseguirsi delle novità. Dal momento che la tecnologia è anche un business, assistiamo alla produzione di beni che diventano obsoleti velocissimamente, imponendo rapidi aggiornamenti.

   Uno dei settori in cui la ricerca fa passi da gigante e le nuove tecnologie vengono costantemente sviluppate è quello della medicina. Le procedure chirurgiche, infatti, grazie al progresso tecnologico, diventano sempre più semplici ed efficienti.

6.

   Ho quasi un centinaio di copie del Piccolo Principe, in altrettante lingue e dialetti: una per ogni Paese visitato da me o dai miei amici. Volevo poter dire in tutte le lingue che «l’essenziale è invisibile agli occhi», eppure oggi è diventato un luogo comune ridotto a kitsch emotivo. Ma che cosa è l’essenziale e in che maniera è invisibile? Lo mostra quel racconto in cui un pellegrino, uno dei tanti in cammino verso un santuario nel Medioevo, s’inerpica su una strada tra grandi cave di pietra, in una giornata di sole cocente. Vede uomini impegnati a sgrossare le pietre con i loro scalpelli e si ferma a osservarne uno, coperto di sudore e polvere, le braccia ferite dalle schegge. «Che cosa fai?» gli chiede. «Non lo vedi?» risponde l’uomo infastidito, senza alzare il capo: «Mi ammazzo di fatica». Il pellegrino riprende il cammino e incontra un altro spaccapietre, altrettanto stanco, sporco e stizzito. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? Lavoro tutto il giorno per far mangiare i miei figli». Il pellegrino continua il viaggio e incontra un terzo scalpellino, malconcio come gli altri, ma sereno. «Che cosa fai?». «Non lo vedi? — risponde l’uomo sorridendo — sto costruendo una cattedrale» e gli indica l’edificio che sta sorgendo in cima alla collina. L’essenziale, invisibile agli occhi del primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo, non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica in lavoro e vita.

[Alessandro D’Avenia, La metà invisibile delle cose, Il Corriere della Sera, 29/04/2019)

Dal “postino” all’e-mail

   Nel linguaggio moderno lo slogan è egemone. L’essenzialità, finalizzata ad una maggiore incisività, è diventata una consuetudine; grazie soprattutto ai cosiddetti “tweet”, ovvero messaggi di testo di lunghezza non superiore a 140 caratteri, inviati mediante “instant messenger”, e-mail o cellulare con lo scopo di comunicare informazioni in tempo reale.

  D’accordo che la semplicità paga sempre, ma l’esagerazione può risultare controproducente. Esporre un concetto nello splendore della completezza, senza reticenze e mutilazioni, è la ragion d’essere della cultura e crea l’uomo “sapiens”.

   Questa nuova frontiera del comunicare in tempo reale con un breve testo scritto, comunque non insidia l’innegabile egemonia delle immagini, bensì le legittima fornendo un supporto sinergico e ridimensionando di fatto la classica figura del “portalettere” che passava in bicicletta a consegnare la posta.

    Può essere considerata una delle tante rivoluzioni che hanno cambiato abitudini e stili di comunicazione dando un’accelerazione al processo di rinnovamento che investe tutti i settori della vita sociale.

   Ricordo ancora quando, qualche lustro or sono, le ragazze aspettavano con ansia sulla soglia di casa il passaggio del “postino” che consegnasse la sospirata lettera del fidanzato lontano, o la mamma che aspettava la lettera del figlio emigrato… Oggi, e lo dico con una nota nostalgica, non c’è posto per le romanticherie d’altri tempi.

Essere nel tempo

 

  Esiste un tempo ciclico e un tempo escatologico. Il tempo ciclico scandisce le ore e il tempo escatologico acquista senso diventando storia. Pertanto la storia della nostra vita è un tempo carico di senso. Secondo lo psichiatra Vittorino Andreoli* <<c’è un tempo dentro di noi che si modifica a seconda degli stili di vita che decidiamo di adottare… e se vogliamo capire l’uomo, dobbiamo capire come questi vive il tempo>>. Il rischio infatti è quello di situarsi al di fuori del tempo, auto-escludendosi dal mondo.

   Lo stile di vita, ovvero il modo di vivere il tempo, è fondamentale. Oggi viviamo in un’epoca in cui, nel tentativo continuo di afferrare la bellezza, il successo e la nuova tecnologia, si è ammazzato il futuro e si è allungato il tempo dell’adolescenza, rendendolo presente perpetuo. Ma vivere il presente disancorati dalla prospettiva futura è deleterio perché pensare il futuro per l’uomo è fondamentale in quanto ci rende “creatori del tempo: <<l’uomo crea il tempo immaginando il futuro>>.

  Questa discontinuità temporale conduce al rifiuto della capacità di attendere e di desiderare, e l’attesa viene sostituita dall’urgenza del tutto e subito. Nel caso in cui si fallisse l’obiettivo, frustrazione e incapacità di vivere, abbinate all’inevitabile senso di colpa, accorcerebbero la strada che conduce alla depressione in quanto verrebbero vissuti alla stregua di macigni che sembrano essere inamovibili.

 

* Vittorino Andreoli – “Il tempo malato, il tempo che muore”, festa di Scienza e Filosofia, quarta edizione. Foligno, 13 aprile 2014.

La “chiave di volta”

   ‘A cap ca nun parl è chiamat cucozza, mi ammoniva quasi quotidianamente mia madre quando, adolescente, ogni volta che venivano parenti o amici a casa e cercavano di coinvolgermi nella conversazione, invece di partecipare ed esprimere le mie opinioni rimanevo in silenzio. Nonostante il monito materno, la riservatezza è stata una costante per tutta la mia vita. L’ho sempre considerata una qualità preziosa, anche se, devo confessare, che in alcuni frangenti ho rimpianto di non avere avuto una “faccia da sfinge” o perlomeno “di bronzo”.

   Essere riservati e non consentire agli altri di invadere la propria privacy è una bella cosa, ma essere avulso dal contesto sociale e rinchiudersi in una torre, foss’anche dorata, di certo non paga. Il timido impenitente corre il rischio di auto-escludersi dalla partecipazione attiva alla vita sociale e di precludersi tante opportunità per realizzarsi. L’essere eccessivamente temerario, così come l’essere esageratamente schivo od anche il fluttuare indifferentemente da un estremo all’altro, è destabilizzante.

   Come ho avuto più volte l’occasione di dire, è l’equilibrio la “chiave di volta”, ovvero, l’elemento indispensabile per vivere alla massima espressione. Personalmente mi sono sempre sforzato di fare l’equilibrista; devo però confessare che il mio grande rimpianto è la carenza della faccia bronzea di cui prima che, in alcuni casi, sarebbe stata quanto mai opportuna per bilanciare i danni causati da una timidezza recidiva.

“La porta è aperta se non è chiusa”

   Una buona prassi quando si commette un errore sarebbe quella di mettere un punto e ricominciare daccapo, tesaurizzando. Il condizionale è d’obbligo in quanto non tutti condividono questa impostazione. Spesso, infatti, nonostante più volte ci siamo scottati, imperterriti continuiamo a collezionare errori l’uno dietro l’altro. “Errare humanun est” dirà qualcuno.

   Verissimo… è come se dicessimo: <<la porta è aperta se non è chiusa.>> È un concetto talmente ovvio che solo un autolesionista potrebbe negarlo. Non a caso Sant’Agostino dice: Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere, ovvero, “cadere nell’errore è stato proprio dell’uomo, ma è diabolico insistere nell’errore per superbia”.

   Ammettere di aver sbagliato credo che sia una delle cose più difficili da accettare. Negare anche l’evidenza di fronte agli altri è comprensibile, ma prendere in giro se stessi – perché di questo si tratta – è davvero diabolico. Soprattutto a coloro che interpretano la vita con molta superficialità, vorrei ricordare che chiudere gli occhi per non vedere o addirittura negare un problema, non lo risolve.

   Lasciare le cose in sospeso non ha mai migliorato la vita ad alcuno. Non potete appioppare agli altri la responsabilità dei vostri fallimenti. Ma non ve l’ha detto la mamma che pretendere di fare la frittata senza rompere le uova o sperare che la papera galleggi senz’acqua è pura presunzione?! E intanto la vita scorre…

“Quann t’apprumettn u puorc curr subt cu a fungell”

   <<Quann t’apprumettn u puorc curr subt cu a fungell>> (quando ti promettono il maiale corri subito con la fune) è un altro classico della cultura subalterna. Il senso è che, nella consapevolezza che <<passato il santo finisce la festa>>, un altro preverbio che può essere considerato un sinonimo del primo, quando ti offrono qualcosa corri subito a ritirarla, non aspettare il giorno dopo, potresti scoprire che si è volatilizzata. Purtroppo la memoria è volatile e, soprattutto quando fa comodo, tende a dimenticare… pertanto, nulla di più facile che una volta ottenuto da qualcuno la cosa che si desidera, ci si dimentica delle promesse fatte per ottenerla.

   Sostanzialmente, cessato l’effetto stimolante, esso non ha più efficacia. Ricordo che da ragazzi, c’era l’abitudine, durante le feste natalizie e pasquali, di recarci, i miei amici ed io, a casa dei nonni e degli zii per fare gli auguri con la speranza di ricevere in regalo qualche soldino. Stavamo bene attenti a non rimandare la visita perché se si andava il giorno dopo, essendo la festa trascorsa, i “cari parenti” non avvertivano più il dovere di elargire la regalia come era consuetudine.

   Un altro rinforzo di questo concetto è il detto: <<Batti il ferro finché è caldo>> Anche in questo caso il senso è palese: se il ferro si raffredda non lo puoi più modellare. Morale della favola: <<Chi ha tempo non aspetti tempo>> e <<ogni cosa a suo tempo>> E se ci fosse ancora qualche dubbio voglio ricordare, e chiudo, che <<chi dorme non piglia pesci>>.

“Chi non ha sofferto non sa condividere le sofferenze altrui”

   <<Le persone che non soffrono mai non possono crescere né sapere chi sono>> ha detto, citando lo scrittore americano James Baldwin, il nostro Gigi Buffon portierone quarantunenne in forza al Paris San Germain, all’indomani della conquista del decimo scudetto personale. Gigi Buffon è una leggenda del calcio e credo che possa essere considerato una fonte attendibilissima, un esempio di professionalità e serietà.

   Il termine sofferenza, una volta sinonimo di pazienza e sopportazione, rimanda ad un contesto di dolore, sia fisico che emotivo, che provoca tormenti e patimenti. Generalmente ci si preoccupa solo del dolore fisico, eppure il dolore emotivo spesso è più resistente e intenso di quello fisico.

   Per combattere il dolore fisico si ricorre ai farmaci, per quello emotivo occorre utilizzare tutte le risorse psicologiche di cui si dispone per elaborare le strategie più idonee ad “uscire fuori dal guado”.

   Una volta si veniva educati alla sopportazione, alla tolleranza, alla resilienza, al differimento della gratificazione e la sofferenza era considerata un trampolino di lancio per la crescita.

   Oggi invece, si tende ad evitare il dolore, con il rischio di cadere sotto i colpi inferti dalla vita. Pochi hanno forza e coraggio sufficienti per rialzarsi e riprendere il cammino. Ci sono infatti tantissime persone soprattutto tra i giovani che, in deficit d’identità, non riuscendo a reagire, boicottano essi stessi sia il loro presente che il loro futuro.

La scuola “parietaria”

Uno dei paradossi della nostra società è che nonostante venga etichettata come società della conoscenza, nello stesso tempo è altresì evidente, così come per la parietaria erba comune molto diffusa, che anche la superficialità con la quale si approccia la cultura è evidente e diffusa, in particolare tra la generazione degli internettiani. Personalmente, sfruttavo ogni occasione per dialogare con i miei studenti e sensibilizzarli allo studio, sottolineando che loro erano fortunati e non lo sapevano e che ai miei tempi studiare era considerato un privilegio in quanto unica opportunità per ribaltare un destino di duro lavoro nei campi che sembrava segnato. Recentemente ho addirittura sognato che, nel mentre in una classe discutevamo sulle modalità di accesso al mondo del lavoro e sull’opportunità di fare il dipendente o l’imprenditore, uno studente del quarto anno, bocciato per due anni di seguito, il cui sogno era di aprire una rosticceria, disse, scatenando l’ilarità generale: <<Prof, io ho assolutamente bisogno del diploma e se anche quest’anno mi bocciate, mi scrivo ad una scuola parietaria… pago e il diploma me lo prendo alla faccia vostra!>> I compagni scoppiarono a ridere e cominciarono a prenderlo in giro. Lui non capiva e si guardava intorno cercando qualche indizio… Ritornata la calma, una compagna, scandendo le parole, gli disse: <<Si dice paritaria, non parietaria!>>

Mai fare i conti senza l’oste

Passano gli anni, cambiano i costumi, cambiano le regole, cambia il nostro stile di vita nonché il nostro modo di pensare, però, “mai fare i conti senza l’oste”, anche se generalmente la tendenza è quella di dimenticarsene, rimane sempre un’ottima regola di vita. Abituati come siamo ad avere tutto e subito, spesso agiamo senza aver valutato ex ante le conseguenze delle nostre iniziative. A ristabilire l’equilibrio ci pensa la vita presentandoci un conto salato e ridimensionandoci. È sempre <<meglio tirare a campare che tirare le cuoia>> diceva l’on. Giulio Andreotti! “Tenere i piedi per terra”, come si diceva un tempo, è un altro ottimo consiglio che, abbinato al primo, previene capitomboli e rovinose cadute. Quanti progetti naufragati, quanti sogni infranti solo per aver fatto previsioni troppo ottimistiche… Non a caso, quando si redige un progetto, oltre alla descrizione dettagliata e puntuale di tutte le fasi organizzative ed operative, bisogna redigere il rendiconto finanziario, proprio per evitare valutazioni azzardate. Illustrare la dinamica finanziaria evidenziando l’andamento nel tempo degli investimenti e delle fonti (capitale proprio o capitale di debito) da utilizzare per la loro copertura è fondamentale. È inutile essere ambigui o tergiversare sulle questioni di fondo: l’immaginazione è un nostro punto di forza a condizione che si resti, lo ribadisco, con i piedi ben saldi per terra, altrimenti le “dritte” tramandateci dalla cultura popolare lasciano il tempo che trovano.