Ho sempre associato il termine “positivo” ad un qualcosa di vantaggioso, favorevole. “Essere positivo”, “pensare positivo”, per me erano due locuzioni che rimandano ad un qualcosa di bello, di buono, di positivo, appunto.
Poi un “bel giorno” – premetto che prima di allora non avevo mai avuto a che fare con questa parola in ambito medico – stavo eseguendo una prova da sforzo in un ambulatorio ospedaliero sull’apposito tapis-roulant e non riuscii a portarla a termine. Alquanto timoroso, chiesi al dottore come era andata e lui, laconico: <<Positivo.>>
Mi sentii sollevato e commentai: <<Grazie a Dio è andata bene.>>
E lui: <<No, prof. Al contrario bisogna fare una coronografia per saperne di più. Qui non la facciamo, ma provvedo immediatamente a fare la prenotazione presso una struttura abilitata.>>
Si trattò di uno schiaffo in faccia in piena regola.
Non solo ero mortificato nell’orgoglio per l’equivoco in cui ero incappato, aggiungiamo la preoccupazione per la mia salute in considerazione della solerzia del medico e si avrà più chiara la situazione circa il mio stato d’animo in quel momento.
Nel giro di due giorni mi ritrovai disteso su di un tavolo operatorio per fare due angioplastiche.
Per fortuna da allora non ci furono più equivoci e quando otto anni dopo mi fu recapitato il risultato di una TAC all’addome e la sentenza fu “positivo” non ebbi alcun dubbio. Di nuovo disteso su di un tavolo operatorio, questa volta mi fu tolto un rene. E se oggi posso ritornare su quei terribili momenti rifletto che, nella vita, è fondamentale non solo capire il senso di una parola, ma anche conoscere le varie accezioni e sfumature dei termini presenti nel vocabolario.
Per sfizio, nello scrivere questo post, sono andato a consultare il vocabolo in questione e, udite, udite, mi sono imbattuto in ben otto accezioni… roba da piangere. Avrei voluto dire da ridere ma, ribadisco, è proprio da piangere.
Luigi Lavorgna